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L’ULTIMA LIBERTA’

***

In un volo di ruote al noto valico

le nostre ombre vicine ci precedono

sul viale, tra immote ombre di tigli;

e sui margini il cielo dei fossati

le muta in chiare immagini a ripeterci

che qui, ora esistiamo. Foglie e aghi

di pino dall’inverno sotterrati

riassommano alla luce dell’accidia

dell’acqua in fiori nuovi. In levità,

come tu dentro il nome a cui somigli,

con la tua vita intera (anche la treccia

che non vidi) Versilia si raduna

nel mio sguardo se intorno esso divaghi

– e messaggera sulla carrareccia

morente nel declivio della duna

ci sorprende la brezza. S’aprirà

tra breve oltre i grovigli, oltre l’insidia

dei rovi litoranei, la lacuna

silvestre, familiare ai nostri esigli.

***

Come si fa di brace

o sbianca, non più quella,

se, non da me voluta,

a un tratto la distanza

ch’è tra noi due si muta,

se la mia mano avanza

tra i suoi capelli e già

sicura li scompiglia!

Dal mondo in un tremare

di palpebre si esiglia

tra paura e speranza,

e in abbandono il gesto

che tenta a sua difesa

come declina presto!

La bambina che era,

la donna che sarà,

con la sua vita intera

nel lampo delle chiare

iridi tra le ciglia

raccolta, ella sospesa

tace ed attende. E’ questo

se il bacio lo suggella

il buio che le piace.

***

Aprile incline a maggio

consumava nel bianco

del vestito all’altare

senza pena il commiato

che avevi nei pensieri

cominciato a settembre;

dalle stanze inquiete

della casa sul mare

al verde delle pinete

lievemente, con slancio

di rami nuovi e di voli

sui sentieri che amore

insegnava a noi soli,

ci inoltrava nel viaggio

due in uno per sempre;

ed eri così sottile

di vita, così sicura

nelle iridi, viva

sul sedile al mio fianco;

oltre il confine del treno

così pura tra odore

di primo fieno saliva

la linea delle colline

a incontrare il sereno.

***

Nel sonno a cui riversa

ti arrendi, che da questa

realtà ti cancella,

niente di me ti resta;

o sei di me cosciente

come la gola è della

vena che lievemente

pulsando l’attraversa.

***

A dirmi che non è soltanto immagine,

il volume del letto lieve avvalla

intorno a lei, per poco ancora illesa

dalla lama lucente che ha già infranto

i vetri e balenando nella tenebra

della stanza si spunta alle pareti.

Incontro alla sua anima che dorme

come il bianco nel folto della neve

in tenera compagine di forme

insieme col mio nome, lenta avanza

la mano sulla trama del lenzuolo,

ostacolo soave se il tremore

dell’attesa prolunga, se dà volo

celeste alla speranza, se del bene

immeritato che mi attende fa

più cocente il rimorso. Così breve

distanza mi separa dal suo fianco;

ma se giungessi a lei da più lontano

del raggio che in quest’attimo le sfiora

la veste suggerendo sulla spalla

la curva della carne, e in volto alfine

le si posa esitante sillabandole

sulle palpebre il giorno, non più grato

mi sarebbe approdare alla struggente

sua certezza di rosa senza spine.

***

Dicembre nella stanza

vuota mi inoltra. Duole

agli occhi quel riflesso

di sole che si insinua

dalle persiane. Sole

sul bianco del soffitto

due mosche immote stanno.

Ma la vita continua

dicono. Il raggio fruga

inquieto l’ombra, sfiora

il letto intatto. Dentro

lo specchio c’è una fuga

di oggetti che ti ignorano.

Rigermina, all’inganno

del raggio, una precaria

estate. Ed ebbre, adesso,

le mosche in una danza

d’amore e morte vanno.

La vita è così varia.

D’oro per un momento

palpitano nell’aria;

poi giù sul pavimento

scendono a capofitto

come la mia speranza.

***

Nel deserto del letto

bocconi, su di un fianco,

riverso (eguali in alto

le ore il vuoto, bianco

quadrante del soffitto

ripete), nel bruciore

degli occhi (ho letto, scritto,

fumato), cieco brancolo

in questa sonnolenza,

nemmeno inferno, limbo

che lentamente svena

i sensi e lascia il cuore

più vivo alla cancrena

dei sogni, alla tua assenza;

mentre, a eguale intervallo,

gocciola sullo smalto

gelido, con un timbro

eguale di metallo,

un filo d’acqua senza

pietà dal rubinetto.

***

Rassegnarmi, alla fine

dovrò anch’io, dopo tanto,

dicono. Ma per via

camminando, l’agguato

teso dalle vetrine

se non sei lì, al mio fianco;

o, nella merceria

dove entravi, lo schianto

solo per una scatola

che si apre sul banco,

e ne escono forcine.

***

Ecco viva a me torni, ecco rimuori

dentro un battito e l’altro delle palpebre,

a un angolo di strada, se improvvisa

nell’assenza degli occhi una mi stia

che un niente dice come te vestita.

Il cuore in soprassalto vuole credere

alle pieghe fluttuanti che a ventaglio

giù dal nodo sottile della vita

per i fianchi si irraggiano, alla stria

di vene che la calza suggerisce;

nella linea inquieta che inacerba

la forma della gamba ti ravvisa,

nella grazia esitante dell’incedere.

Poi la luce, crudele come il taglio

della falce, l’immagine riverbera

di un’estranea che ignara restituisce

alla morte il tuo volto, i tuoi colori.

***

Volevi essere mia

come nessuna è stata

ad uomo in terra mai:

Lilith, Eva, Maria.

Come nessuna amata,

facevi una mattina

di ogni mia giornata,

quando di stanza in stanza

un passo adolescente

andava, di bambina

cresciuta troppo presto,

e un ridere di niente

bastava alla speranza.

Poco durò. Non era,

vivere, solo questo.

Almeno più leggera

la terra del mio strazio

io prego che ti sia,

ora che in breve spazio

ti accoglie, a lei tornata

per rimanere mia

come nessuna è stata

ad uomo o sarà mai:

Lilith, Eva, Maria.

***

Quello che ormai sul volto

non si tradisce, a gesto

più non si affida, strazio

che del proprio rovello

in cuore si alimenta

e, piena senza foce,

se cerca un varco, presto

il silenzio lo inghiotte,

prima che giunga in gola;

lo strazio che in sé muore,

perché se in grido aperto

straripa, se in parola

di liberarsi tenta

tu sai che a orecchio umano

è voce nel deserto –

lontano, oltre la notte,

a lei per altro spazio

andrà, sarà raccolto.

***

Impara dalla foglia

di novembre che vedi

sciogliersi dalla spoglia

pianta nella precaria

luce in punta di piedi;

dalla foglia che sa

prima d’essere morta,

persuadendosi a un lieve

gioco col filo d’aria

che alla terra la porta,

fare di ciò che deve

l’ultima libertà.

***

L’ULTIMA LIBERTA’ – MONDADORI, MILANO 1962